Intelligenza artificiale e coaching: dal “Se” al “Come”. Insight dalla tavola rotonda ICF

Il 14 novembre 2025, nella cornice della conferenza ICF Italia, si è tenuta una tavola rotonda “Il coach nell’era dell’intelligenza artificiale” gestita dal Comitato Scientifico ICF di cui faccio parte, che ha segnato un momento di svolta per la nostra professione. Non più il dibattito sul “se” adottare l’intelligenza artificiale nel coaching, ma finalmente il confronto sul “come” farlo in modo etico, efficace e trasformativo.

Un panel di voci autorevoli per esplorare il cambiamento

La moderatrice Gabriella Campanile, coordinatrice del Comitato Scientifico ICF, ha orchestrato un dialogo ricco e multidisciplinare che ha visto protagonisti:

  • Maria Rita Fiasco, Executive Coach e membro del Team AI & Coaching del Comitato Scientifico, che ha presentato i risultati della ricerca più ampia mai condotta in Italia sul tema
  • Anna Gallotti, MCC di ICF Global, che ha portato la prospettiva internazionale e il modello LEAD
  • Giovanna D’Alessio, MCC e già Presidente ICF Global e Italia, voce autorevole sulle competenze profonde del coach
  • Il Prof. Paolo Ceravolo dell’Università degli Studi di Milano, che ha portato la profondità tecnica necessaria per demistificare l’IA
  • Maria Laura Fornaci, coordinatrice dell’Osservatorio Future of Workers della Fondazione Brodolini, con la sua visione sistemica sul futuro del lavoro

L’industria del coaching sta attraversando trasformazioni epocali con l’emergere di piattaforme AI, chatbot e strumenti sempre più sofisticati. Ma di cosa deve attrezzarsi veramente il coach? Quali competenze e quale mindset servono per restare nel coaching trasformativo? E quali sono i rischi reali da gestire?

La ricerca che fotografa il presente: 197 coach ci parlano

Maria Rita Fiasco ha presentato i risultati di un progetto durato 10 mesi che ha coinvolto 197 coach, prevalentemente ICF ma non solo. Il profilo che emerge è sorprendente e sfata alcuni miti:

  • Il campione è composto per il 70% da donne, con il 43% nella fascia 50-59 anni e il 64% con credenziali ICF. L’interesse per l’IA non è limitato ai più giovani – questo è il primo insight importante. È un campione senior e trasversale che sta esplorando con curiosità le nuove frontiere.
  • I dati sull’adozione parlano chiaro: il 44% già usa l’IA (in modo frequente o occasionale), mentre il 33% sta iniziando. Ma ecco il dato più interessante: tra i non utilizzatori, prevale il “non la conosco” rispetto a una chiusura aprioristica. C’è voglia di esplorare, non paura del cambiamento.
  • Le barriere principali? Soprattutto gap di competenze e scarsa familiarità con gli strumenti. I timori legati a privacy, etica e gestione dati esistono, certo, ma sono minoritari. Il focus si sta spostando decisamente dal “se” al “come” adottare l’IA nel coaching.

E dove si usa concretamente? Preparazione delle sessioni, sintesi, riflessione post-sessione. L’IA diventa un alleato nel lavoro di backoffice, non un sostituto nella relazione con il cliente.

Le tre direttrici di competenza per il coach aumentato

Dalla ricerca emergono tre direttrici fondamentali che abilitano un uso consapevole dell’IA:

1. AI Literacy. Non serve diventare programmatori, ma comprendere principi e logiche, limiti e opportunità, rischi e potenzialità. È fondamentale saper gestire la disclosure con i clienti, proteggere i dati, definire confini chiari d’uso.

2. Mediazione Uomo-Macchina. Integrare senza delegare – questa è la chiave. Significa saper fare prompting efficace, leggere criticamente gli output dell’IA, mantenere autenticità, presenza e senso etico. Il coach resta al timone, l’IA è il co-pilota.

3. Metacognizione Aumentata. Forse la più sofisticata: sviluppare consapevolezza di come pensiamo e decidiamo mentre usiamo l’IA. È una competenza riflessiva che ci permette di non essere “fagocitati” dalla tecnologia ma di usarla come specchio per apprendere sul nostro stile.

La prospettiva ICF Global: il modello LEAD e l’insostituibile ascolto umano

Anna Gallotti ha raccontato il percorso di ICF Global dal novembre 2022 (lancio di ChatGPT) ad oggi. Una Task Force dedicata, l’assunzione di una figura specializzata (Susan Caesar), due tavoli di lavoro con esperti e stakeholder globali, pubblicazione di guidelines. Un approccio strutturato e responsabile.

Ma il contributo più prezioso viene dalla ricerca condotta con Columbia University e Catherine Tannot: il modello LEAD (Listen, Elevate, Align, Deliver). L’esito chiave? La fase di Listen – l’ascolto sistemico e fine dei segnali, degli effetti a 360° – non è sostituibile dall’IA, che resta più lineare che sistemica.

Ecco quindi il valore distintivo come coach umani: la capacità di cogliere le sfumature, i non detti, le emozioni sottili, le connessioni sistemiche che un algoritmo, per quanto sofisticato, non può catturare.

Competenze interiori e digitali: il binomio inscindibile secondo Giovanna D’Alessio

D’Alessio ha brillantemente articolato il doppio registro di competenze necessarie:

Le competenze interiori (chi siamo nella relazione):

  • La presenza cosciente come firma distintiva e antidoto all’irrilevanza
  • La non direttività autentica: usare insight e metriche dell’IA senza farsene guidare
  • Lo sviluppo verticale: aiutare il cliente ad accedere a livelli più alti di consapevolezza

Le competenze digitali/etiche:

  • Il dialogo con l’IA: prompt engineering, contestualizzazione, lettura critica
  • L’etica operativa: IA prima/dopo la sessione, mai come “terzo interlocutore” senza consenso
  • La riflessività: usare l’IA come specchio per apprendere, non per auto-confermarsi
  • La co-creazione: integrare logica algoritmica e intuizione umana

I fondamenti tecnici spiegati con chiarezza: il contributo del Prof. Ceravolo

Il Professor Ceravolo ha demistificato l’IA spiegandola come “intelligenza collettiva” – una codifica efficiente della conoscenza prodotta dalla società. I Large Language Model (LLM) sono forti sul sapere enciclopedico ma deboli sul sapere procedurale implicito.

I limiti strutturali sono chiari: finestre contestuali finite, rischio di propagazione errori su catene lunghe, debolezza sulle complessità sistemiche. Tecniche come il RAG (Retrieval-Augmented Generation) possono estendere le fonti, ma l’IA non ha corpo né emozioni – limiti fondamentali per l’esperienza incarnata e la creatività che caratterizzano il coaching trasformativo.

Il futuro del lavoro: dall’efficienza individuale all’IA agentica

Maria Laura Fornaci ha portato una prospettiva sistemica fondamentale. Oggi viviamo il “paradosso dell’IA generativa”: benefici individuali che non sempre si traducono in miglioramenti del bottom line aziendale.

Ma la prossima ondata sarà l’IA “agentica” – integrata nei processi verticali, nei workflow delle funzioni aziendali. Questo avrà effetti profondi su:

  • Attività: cosa affidare all’IA e cosa tenere in capo all’umano
  • Ruoli: dal tecnico all’orchestratore di agenti IA
  • Qualità del lavoro: soddisfazione, senso, accountability

Citando Luciano Floridi, non parliamo di “intelligenza” ma di agency artificiale potentissima sui segni, non sul senso. La conseguenza? Governare l’IA mantenendo gli umani in controllo, definendo confini chiari e responsabilità.

I 7 insight chiave emersi: la sintesi operativa

1. Il coach resta al timone: L’IA è co-pilota per preparazione e riflessione, ma il valore umano distintivo resta nella presenza, ascolto sistemico e intuito.

2. Etica e trasparenza vanno scritte nel contratto: esplicitare se/come si usa l’IA, con limiti, protezione dati e consenso informato. L’AI Act europeo (Art. 50) lo richiede già.

3. Le tre competenze abilitanti sono imprescindibili: AI-literacy, mediazione uomo-macchina, metacognizione aumentata – un trittico da sviluppare con urgenza.

4. La community è pronta ma ha bisogno di supporto: il 77% già usa o sta iniziando. Le barriere sono di competenza più che ideologiche.

5. L’IA meglio definita con Artifical Agency cambierà i significati del lavoro: dai benefici individuali all’integrazione nei processi, con nuovi ruoli e responsabilità.

6. I limiti tecnici richiedono supervisione umana: finestre contestuali finite, errori su complessità sistemiche – servono supervisione e registri decisionali.

7. “Agency senza intelligenza” – la cornice epistemologica: l’IA va governata come nuova forma di agency, non come intelligenza dotata di senso.

Il coaching aumentato: una visione per il futuro

La tavola rotonda ha tracciato una rotta chiara: il coaching aumentato non è quello che delega all’IA ma quello che integra consapevolmente tecnologia e umanità. È un coaching che:

  • Mantiene il coach al timone
  • Dichiara e regola l’uso dell’IA
  • Sviluppa le tre direttrici di competenza
  • Garantisce supervisione e accountability
  • Presta attenzione a equità e bias
  • Usa l’IA dove crea valore senza erodere l’ascolto sistemico

La chiamata all’azione per la nostra community

Il messaggio finale è chiaro: non possiamo permetterci di restare spettatori. Il cambiamento è qui, ora. La scelta non è se adottare l’IA ma come farlo preservando e amplificando ciò che ci rende insostituibili: la nostra presenza umana, la capacità di ascolto sistemico, l’intuizione creativa.

Come coach, abbiamo la responsabilità di:

  • Investire nelle tre competenze abilitanti
  • Sperimentare con curiosità e rigore etico
  • Condividere apprendimenti con la community
  • Contribuire alla definizione di standard e best practice
  • Mantenere sempre il cliente e la relazione al centro

Il futuro del coaching non sarà né totalmente umano né totalmente artificiale. Sarà aumentato, integrato, consapevole. E noi coach abbiamo l’opportunità – e la responsabilità – di plasmarlo attivamente.

I componenti del Comitato Scientifico ICF Italia:

Il giudizio e conflitto tra le percezioni di realtà e la ricerca di verità.

La scala dell’inferenza: un modello per comprendere i conflitti tra persone, nei gruppi e trai gruppi

La Scala dell’inferenza (Ladder of Inference), ideata da Chris Argyris, figura di spicco nel campo dell’apprendimento organizzativo, descrive le fasi del nostro processo di ragionamento. Questa “scala” rappresenta il percorso mentale che ci porta dai fatti alle conclusioni.
È importante essere consapevoli del punto in cui ci troviamo su questa scala, evitando di salire troppo in fretta e formulare giudizi affrettati. Questo modello si rivela particolarmente utile nella risoluzione dei conflitti e nel processo decisionale di gruppo, poiché aiuta a fondare le azioni su osservazioni e valutazioni ben ponderate. Ecco una mia prima riformulazione della Scala dell’inferenza:

  1. Fatti oggettivi (Fatto): Fatti oggettivi, o realtà
    Fatti selezionati: Informazioni selezionate come sottoinsieme di fatti oggettivi
  2. Significato (Percezione): Realtà interpretata (significato) sulla base di informazioni selezionate
  3. Ipotesi (Valutazione): Ipotesi ricavate dalla realtà interpretata
  4. Conclusioni (Interpretazione): Conclusioni tratte sulla base di ipotesi
  5. Credenze (Giudizio): Credenze fatte sulle conclusioni
    Azioni: Eventuali e successivi comportamenti e azioni basati su credenze

Dalle cose come sono al giudizio che pronunciamo

Il modello di questa scala dell’inferenza (R1-R5: da realtà 1 a realtà 5) ci ricorda invece che, fra l’accaduto (R1: la realtà) e il nostro giudizio (R5: la nostra verità), si snoda un percorso complesso fatto di filtri, costruzioni e riletture continue. Ecco come funziona la Scala dell’inferenza così riformulata:

  • R1 – Fatto (fatti oggettivi e fatti selezionati)
    • È l’evento nudo e crudo, ciò che accade prima di qualunque filtro umano. Un dato nel mondo, indipendente dalle nostre categorie e dai nostri desideri.
  • R2 – Percezione (significato)
    • Il fatto diventa stimolo sensoriale: vedo, ascolto, tocco. Ma già qui la realtà è selezionata: l’occhio si concentra su determinate frequenze luminose, l’orecchio su specifiche vibrazioni. La realtà si restringe al “campo percettivo”.
  • R3 – Valutazione (ipotesi)
    • Appena il dato entra in contatto con la memoria e con le emozioni, gli attribuiamo un primo valore (piacevole/spiacevole, vantaggioso/svantaggioso). È il “termometro” emotivo che decide se qualcosa merita attenzione o va scartato.
  • R4 – Interpretazione (conclusioni)
    • La mente collega quel valore ai propri schemi, alle proprie storie, al contesto culturale. Costruisce una narrazione: «Succede perché…», «Significa che…». Qui si innestano paradigmi, credenze, modelli di personalità: Big Five, archetipi, MBTI, ecc.
  • R5 – Giudizio (credenze)
    • È la sintesi normativa: giusto/sbagliato, vero/falso, buono/cattivo.
      Il giudizio rivendica lo statuto di verità, ma è il prodotto finale di una catena di trasformazioni che parte da R1. Se dimentichiamo queste mediazioni, confondiamo il nostro giudizio con il fatto e scambiamo le nostre conclusioni per la realtà stessa.

Realtà vs Verità. Sintesi delle principali prospettive filosofiche e psicologiche (e il loro legame con R1-R5: da realtà 1 a realtà 5)

Quando affermiamo che «la verità è una rappresentazione accurata della realtà» adottiamo, talvolta senza accorgercene, l’idea ingenua che l’informazione passi indenne dai fatti alla mente e, se il trasferimento è perfetto, coincida con la vera realtà che, per semplificazione, possiamo qui far coincidere con il fatto. Ripeto, affermare che R1 = vera realtà è una scorciatoia poiché molte prospettive filosofiche avvertono che la realtà in senso assoluto (noumeno, volontà, ecc.) resta oltre la portata dei nostri sensi che vedono solo il fenomeno della realtà…
Per quanto riguarda la verità, possiamo dire che R1 è condizione necessaria ma non sufficiente per la verità; quest’ultima richiede un atto interpretativo che arriva solo dopo filtri percettivi, valutazioni emotive e costruzioni concettuali. Quindi, non possiamo identificare la verità con R1; possiamo piuttosto dire che R1 è il punto di partenza condivisibile da cui, passando per R2-R4, si giunge a giudizi che pretendono di essere veri (R5). In sostanza possiamo dire che:
R2 – Percezione: il fatto è già filtrato sensorialmente.
R3 – Valutazione: gli attribuiamo un valore emotivo.
R4 – Interpretazione: costruiamo spiegazioni e schemi.
R5 – Giudizio: formuliamo un’asserzione che rivendica lo statuto di vero/falso

Vediamo adesso la sintesi delle principali prospettive filosofiche e psicologiche (e il loro legame con R1-R5: da realtà 1 a realtà 5):

  • Prospettiva: Kant – Fenomeno / NoumenoProspettiva:
    • Idea-chiave su “realtà” e “verità”: Conosciamo solo il fenomeno (mondo filtrato dalle categorie mentali); il noumeno resta inaccessibile.
    • Collegamento con i 5 passi R1-R2: Noumeno = R1 (Fatto puro, irraggiungibile) → Fenomeno già parte da R2 (Percezione strutturata).
  • Prospettiva: Schopenhauer – Volontà / Rappresentazione
    • Idea-chiave su “realtà” e “verità”: Il mondo che vediamo è rappresentazione; dietro c’è la Volontà cieca che non appare direttamente.
    • Collegamento con i 5 passi R1-R2: Volontà = R1 metafisico. R2-R4 trasformano la Volontà in immagini su cui poi giudichiamo (R5).
  • Prospettiva: Nietzsche – Prospettivismo
    • Idea-chiave su “realtà” e “verità”: Non esistono fatti “puri”: ogni “verità” è interpretazione utile alla vita da un dato punto di vista.
    • Collegamento con i 5 passi R1-R2: Mette l’accento su R4-R5: il Giudizio è sempre prospettico; riconoscerlo riduce conflitti.
  • Prospettiva: Wilber – Visione integrale
    • Idea-chiave su “realtà” e “verità”: Ogni approccio coglie una parte di verità; servono prospettive multiple per avvicinarsi al reale complesso.
    • Collegamento con i 5 passi R1-R2: Invito a integrare diversi R4-R5: ogni giudizio è parziale, occorre ascoltare più quadranti (AQUAL – All Quadrants – All Levels).
  • Prospettiva: Costruttivismo
    • Idea-chiave su “realtà” e “verità”: La mente costruisce attivamente la realtà: la conoscenza è un modello funzionale, non uno specchio oggettivo.
    • Collegamento con i 5 passi R1-R2: Enfatizza R3-R4. Valutazione e Interpretazione plasmano la “verità” personale e condivisa.
  • Prospettiva: Gestalt
    • Idea-chiave su “realtà” e “verità”: Già la percezione organizza il dato secondo leggi innate; “il tutto è più della somma delle parti”.
    • Collegamento con i 5 passi R1-R2: Mostra la frattura precoce R1→R2: ciò che “vediamo” è già selezionato e completato dalla mente (l’immagine è un contrasto dallo sfondo: la mente struttura, completa e interpreta ciò che vede).
  • Prospettiva: Psicologia Cognitiva
    • Idea-chiave su “realtà” e “verità”: Schemi, bias ed euristiche deformano valutazioni e giudizi; la terapia Cognitiva Comportamentale (CBT) insegna a separare fatti e pensieri.
    • Collegamento con i 5 passi R1-R2: Copre l’intera catena R2-R5: attenzione selettiva, bias di conferma, errori attributivi, ecc.

Dal fatto al giudizio: collegamento ai passaggi R1-R5

Riassumiamo ora i passaggi R1-R5: da realtà 1 a realtà 5 (rappresentati nell’immagine sopra) e colleghiamoli alle teorie discusse, per evidenziare come ciascun livello aggiunga qualcosa di nostro rispetto alla realtà oggettiva:

  1. R1 – Fatto (realtà oggettiva):
    • È l’evento nudo e crudo, ciò che accade nel mondo o un dato così com’è. Idealmente è indipendente da chi osserva (es. “ore 8:00, Mario non è arrivato alla riunione”).
    • Nella filosofia di Kant o Schopenhauer corrisponde al noumeno o alla realtà in sé – qualcosa che esiste, ma di cui non abbiamo accesso diretto completo.
      Tutti i pensatori analizzati concordano che questo livello puro è in parte sfuggente: già nel momento in cui osserviamo un fatto, non lo cogliamo mai in totale oggettività.
    • Importante nei conflitti: iniziare distinguendo i fatti concreti su cui (si spera) tutti possano accordarsi, prima di discutere il resto.
  2. R2 – Percezione:
    • È il modo in cui i nostri sensi e la nostra mente colgono il fatto. Già qui possono avvenire discrepanze.
    • La Gestalt insegna che percepire significa strutturare (vediamo forme, pattern, a volte illusioni: ad es. percepire un movimento che non c’è). Anche la psicologia cognitiva e studi sul comportamento mostrano che la percezione è selettiva: possiamo notare o non notare aspetti di un evento (es. gorilla invisibile).
    • Un altro esempio: due testimoni oculari di un incidente spesso ricordano diversamente i colori o dettagli – la percezione di R2 differisce per ciascuno. In termini di “verità”, la percezione è la “nostra realtà” immediata, che può discostarsi dal fatto (R1).
    • Nei conflitti/feedback: Condividere le proprie percezioni soggettive (“io ho visto/sentito…”) sapendo che sono parziali apre la discussione, invece di presumere che la propria percezione sia l’unica valida.
  3. R3 – Valutazione:
    • È la prima attribuzione di valore o giudizio rapido che diamo a ciò che abbiamo percepito. Spesso è un processo quasi automatico: coinvolge le emozioni, i filtri personali (es. aspettative, bisogni).
    • Ad esempio, percependo un collega che parla con tono elevato, posso valutarlo subito come “ce l’ha con me” (valenza negativa) oppure “è appassionato” (valenza positiva) prima ancora di pensarci. La valutazione intreccia percezione e interpretazione emotiva.
    • Nietzsche riconoscerebbe qui l’entrata in gioco della prospettiva individuale (il mio istinto può valutare un fatto secondo i miei valori).
      La psicologia cognitiva studia questo stadio con concetti come appraisal (valutazione) nelle teorie dell’emozione: il modo in cui interpreti un evento determina l’emozione che provi.
      Ad esempio, se valuto l’atteggiamento di una persona come ostile, proverò rabbia; se lo valuto come un malinteso, sarò più tollerante.
    • Nei conflitti/feedback:
      R3 è importante perché spesso le divergenze nascono qui (“io l’ho vissuta come una mancanza di rispetto, tu invece no”).
      Esternare come si è valutato un fatto (“mi sono sentito attaccato da quel commento”) aiuta a far capire la propria reazione, senza però dare colpe, visto che è una nostra valutazione.
  4. R4 – Interpretazione:
    • A questo livello costruiamo una spiegazione articolata o un significato del fatto percepito, spesso basandoci su esperienze passate, credenze e bias cognitivi. L’interpretazione risponde a “perché è accaduto?” o “cosa significa?”.
    • Ad esempio: “Mario è in ritardo (fatto); ho notato che non arriva (percezione); penso non tenga al meeting (valutazione negativa); probabilmente è pigro o irresponsabile” – quest’ultima è un’interpretazione (sto attribuendo una causa interna e un tratto di personalità).
    • Kant direbbe che tutta la nostra conoscenza è interpretazione di fenomeni secondo categorie;
      Nietzsche sottolinea che ogni verità è interpretazione prospettica; il costruttivismo e la psicologia cognitiva concordano che qui stiamo aggiungendo del nostro (schemi, aspettative).
    • Le distorsioni cognitive operate da schemi errati si manifestano specialmente in R4: ad esempio il mind reading (credere di sapere cosa l’altro pensa) o la personalizzazione (“se non mi saluta, ce l’ha con me” – interpretare ogni azione altrui riferita a sé) sono tipici errori interpretativi.
    • Nei conflitti/feedback:
      È cruciale separare le interpretazioni dai fatti. Formulare frasi del tipo: “La mia interpretazione di questo fatto è che…”, riconoscendo che è una lettura possibile e non l’unica verità, apre la strada al confronto.
      Chiedere anche all’altro: “Tu come interpreti questo comportamento?” per vedere se state attribuendo intenzioni diverse. Questo stadio è dove si può rettificare: spesso scoprendo le intenzioni reali dell’altro, l’interpretazione iniziale (magari negativa) si rivela errata.
  5. R5 – Giudizio:
    • È il livello finale in cui formuliamo una conclusione o verdetto che tendiamo a considerare la “verità” sull’evento o sulla persona.
    • È qui che diciamo ad esempio: “Tu sei inaffidabile” oppure “Questo fatto significa che il progetto è fallimentare” – stiamo dando un giudizio globale. Il giudizio spesso incorpora l’interpretazione (R4) ma la fissa in un’affermazione ritenuta vera, a volte con carattere generale o definitivo.
    • Nietzsche ci metterebbe in guardia: i giudizi sono spesso illusioni divenute realtà nella nostra mente, semplificazioni grossolane della ricca complessità del reale.
      Ken Wilber suggerirebbe di ricordare che il nostro giudizio è solo un frammento della verità totale; un altro punto di vista potrebbe rivelare un altro frammento.
    • Nei conflitti/feedback:
      Arrivare a R5 è normale (abbiamo opinioni e le esprimiamo), ma è utile farlo dopo aver chiarito i passi precedenti con l’interlocutore. Inoltre, conviene formulare giudizi in modo aperto e non assoluto.
      Ad esempio invece di “Dunque hai sbagliato tutto, sei incompetente”, poter dire: “Alla luce di quello che ci siamo detti, il mio giudizio sulla situazione è che c’è stata leggerezza. Tu come la vedi?”. Coinvolgere l’altro anche sul giudizio finale permette di costruire una verità condivisa più vicina possibile ai fatti.

De-escalation e ricadute operative

Quando due parti entrano in conflitto, ciò che si scontra non sono (quasi mai) i fatti, bensì due Giudizi ormai cristallizzati in convinzioni.
La de-escalation richiederebbe quindi un “reverse engineering” lungo la scala R5 → R1:
smontare i giudizi, risalire alle interpretazioni, alle valutazioni emotive, alle percezioni selettive e, infine, tornare al fatto nudo.

Tre ricadute operative per la formazione e per il coaching:

  1. Mappare i livelli di discorso – Quando emergono incomprensioni, chiedersi: «Siamo su R1 (dati), R2 (percezioni) o R4-R5 (interpretazioni e giudizi)?» aiuta a disinnescare liti basate su “verità” diverse.
  2. Integrare più prospettive – Pratiche come World Café, fish-bowl, constellation, ecc. permettono di far emergere interpretazioni molteplici (Nietzsche, Wilber), valorizzando il frammento di verità di ciascuno.
  3. Allenare il “debiasing” – Esercizi di reality-testing, role-reversal e retrospettive strutturate aiutano i partecipanti a riconoscere bias cognitivi, a distinguere fatti da costruzioni (Costruttivismo, Cognitivismo).

In conclusione, distinguere realtà e verità non è solo un esercizio teorico, ma ha implicazioni pratiche fondamentali. Filosofi come Kant, Schopenhauer, Nietzsche e Wilber, ciascuno a modo suo, ci mostrano che la verità umana è sempre mediata – dai sensi, dalla mente, dalla prospettiva o dal livello di coscienza. Le psicologie (costruttivista, della Gestalt, cognitiva) confermano empiricamente che non “vediamo” mai il mondo in modo neutro, ma tramite filtri e costruzioni mentali.

Applicare questa consapevolezza nei contesti formativi, nella comunicazione e nella gestione dei conflitti significa allenarsi a separare i fatti dalle interpretazioni, riconoscere le proprie distorsioni, e avere l’umiltà di accettare che il nostro punto di vista è solo uno dei possibili. Così facendo, il confronto diventa più sincero e produttivo: invece di scontrarsi tra “verità” assolute incompatibili, ci si ascolta per comprendere come ciascuno costruisce il proprio senso della realtà. Questa è la chiave per un feedback efficace e per la risoluzione collaborativa dei conflitti.

Fonti:

  • Chris Argyris ideatore della Scala dell’inferenza (Ladder of Inference)
  • Psicologia cognitiva – la percezione interpreta i dati sensoriali, non coincide mai perfettamente con la realtà; distorsioni cognitive che alterano percezione e interpretazione della realtà.
  • Kant – distinzione fenomeno/noumeno (realtà per noi vs realtà in sé)
  • Nietzsche – prospettivismo, “non esistono fatti ma solo interpretazioni”; verità come illusioni dimenticate
  • Schopenhauer – mondo come rappresentazione (fenomeni per il soggetto) vs Volontà (essenza in sé)
  • Ken Wilber – integrazione di prospettive, ogni campo contiene un aspetto di verità; nessuno possiede la verità intera, ognuno ha un frammento
  • Costruttivismo (psicologia) – la mente costruisce attivamente la realtà, dando significato ai dati
  • Psicologia della Gestalt – la percezione organizza attivamente gli stimoli (illusione phi: percezione di movimento diverso dalla realtà); percezione influenzata da aspettative
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